“Il viaggio è la ricompensa”. Buona fortuna, Jenson!

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Tempo di lettura: 5 minuti
di Alessandro Secchi @alexsecchi83
29 Novembre 2016 - 09:30
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Che ci volete fare: io, nella F1, ci vedo quel pizzico di romanticismo che mi permette ancora, dopo 25 anni e tanti improperi verso gli alti livelli della piramide, di restare legato a questo mondo.

Il finale di stagione è stato contraddistinto, oltre che dalla lotta strappa infarti tra Lewis e Nico, dall’abbandono di Massa e Button. Su Felipe non ho potuto astenermi dallo scrivere qualcosa dopo il ritiro tra fiumi di lacrime (e pioggia) in Brasile. Su Jenson mi sono ripromesso di attendere la sua ultima ad Abu Dhabi, lasciando spazio ad Ettori per decantare le lodi del suo idolo.

So cosa vuol dire perdere un punto di riferimento. Sono passati dieci anni dal primo ritiro di Michael, ma non contento lui ha pensato bene di regalare anche il bis, quattro anni fa. Ci si sente svuotati e scarichi, e ci si pone molte domande: prima tra tutte, se si continuerà a seguire la F1 con lo stesso ardore e la stessa passione. Io ci ho messo un po’ a digerire il tutto. 

Jenson Button è, volutamente senza usare il passato, un pilota fantastico. È stato, perché questo è un dato di fatto, uno dei più sottovalutati di questo secolo. Lo ricordo giovanissimo al primo anno in Williams, al fianco di Ralf Schumacher: all’esordio mostra ottime doti. Dopo la parentesi in Benetton, poi diventata Renault, l’arrivo alla BAR, con la quale si toglie le prime soddisfazioni: dai primi podi nel 2004, alla prima vittoria nel rocambolesco GP d’Ungheria del 2006. Ecco, Jenson è stato l’uomo del rocambolesco. Ungheria 2006 appunto, Australia 2010, Canada 2011, Brasile 2012.

Ma non solo: dopo i terribili anni marchiati Honda 2007/2008, con monoposto assolutamente non all’altezza della situazione, la sua avventura in F1 sembra ormai segnata. Ed invece, il mago del rocambolesco, nel 2009 finisce al volante della monoposto più sottovalutata di tutte nei test invernali, la BrawnGP che nasce dalle ceneri della disastrata Honda, pendendo dalle labbra e dall’intuito del mago Ross.

Vettura sottovalutata (per alcuni sottopeso nei test) + pilota sottovalutato è una combo micidiale, perché anche grazie al discusso doppio diffusore la BrawnGP e Jenson prendono tutti a ceffoni per metà stagione. Quando gli altri ritornano, Red Bull in primis, è ormai troppo tardi. È una favola fantastica che resta nella storia. Al debutto, e nel suo unico anno di vita, la BrawnGP diventa Campione del mondo costruttori e piloti, proprio con Jenson che corona così il suo sogno. 

Non basta ancora: pur da Campione, Jenson viene etichettato come il pilota fortunato, quello che si è trovato al posto giusto al momento giusto. Per aprire gli occhi di chi ancora non crede in lui ci vogliono i successivi tre anni. Da Campione in carica, nel 2010 approda alla Mclaren-Mercedes, con la BrawnGP che nel frattempo si è trasformata nel team ufficiale Mercedes. Jenson, a Woking, trova il Campione 2008 Lewis Hamilton. Gli ultimi due iridati sono compagni di squadra nello stesso team, con il numero 1 che passa dalla MP4/24 di Lewis alla MP4/25 di Jenson (parentesi, a mio modo di vedere la più bella vettura di questo ciclo 2009-2016 insieme alla Mercedes W05 del 2014).

Il triennio di convivenza, immaginato all’inizio in estremo favore di Lewis, vede Jenson non sfigurare affatto, anzi. Sebbene Lewis dimostri di essere più forte in qualifica, soprattutto nel 2012, i risultati globali vedono il più giovane inglese comandare nel computo delle vittorie (10/8) ma non nei punti totali (672 a 657 per Jenson). Insomma, altro che paracarro, come si lasciò scappare Briatore un tempo. 

Nel 2013 la Mclaren opta per una rivoluzione tecnica che si trasforma in un suicidio sportivo. I risultati non arrivano più e l’arrembante Sergio Perez, giunto a Woking al posto di Hamilton, è un elemento di disturbo. Nel 2014 le cose migliorano: a parte Magnussen al posto di un Perez praticamente silurato, arriva un terzo posto guadagnato a tavolino a Melbourne, poi nulla più a parte quattro piazzamenti sul gradino di legno, quello del quarto posto. L’ultimo biennio lo conosciamo: una Mclaren alla deriva, sprofondata nel 2015 con il ritorno della Honda in una crisi indicibile. Nonostante questo, nelle poche occasioni che si sono presentate per far punti, Jenson non si è fatto pregare.

Pilota sopraffino in condizioni miste, Jenson ha unito il suo carattere da vero gentleman alla concretezza di chi sa tirare fuori dalla vettura il 105%. In pochissimi hanno avuto la sua intelligenza quando la lettura della gara richiedeva scelte rapide, soprattutto con pista umida. Esemplare, invece, fuori dalla vettura. Mai una parola fuori posto, mai una critica a squadra o colleghi. Un esempio. Bellissimo il rapporto con suo papà John, personaggio fantastico mancato purtroppo quasi tre anni fa.

Il ritiro di Abu Dhabi fa il paio con quello di Massa in Brasile. Ma forse va bene così: Jenson ha avuto modo di farsi salutare come si deve dal pubblico e di godere di ancora qualche minuto di affetto da parte delle telecamere.

Bellissimo il gesto di correre la sua ultima gara con il casco giallo/bianco del 2009, quello del titolo iridato. Per ricordare ancora una volta, a chi per tanto tempo l’ha sottovalutato ingiustamente, che alla fine è stato lui ad avere la meglio. 

Mi mancherà. In bocca al lupo per tutto, JB!

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