Goodbye, ‘Black Jack’

F1Storia
Tempo di lettura: 9 minuti
di Francesco Ferrandino
19 Maggio 2014 - 17:00
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Nessuno prestava molta attenzione a lui, quel pomeriggio del 3 luglio 1966. Schierato in seconda fila sulla macchina che portava il suo nome, Jack Brabham per tutti era ormai diventato “nonno Jack”. Quarant’anni sul groppone, e due titoli mondiali conquistati oramai diversi anni prima, nel biennio 59-60 con la Cooper a motore posteriore che proprio lui, “Black” Jack, aveva contribuito in maniera decisiva a rendere vincente. E che aveva indicato a tutti la moderna via della costruzione delle auto da Gran Premio, rendendo definitivamente obsoleta la filosofia dei “buoi davanti al carro”. Ma adesso, nel 1966, non era certo tra i favoriti dopo che già erano passate due gare dall’inizio di quella stagione, che segnava l’inizio della F1 con motori tremila. Cambiamento epocale che aveva colto impreparati quasi tutti ma non lui, anche se nessuno ancora poteva rendersene conto, quel giorno a Reims.

Dalla natìa Australia, dopo una vittoriosa carriera nelle gare oceaniche con le piccole “midget”, era sbarcato in Europa nel 1955, già quasi trentenne, e aveva trovato un posto come meccanico-pilota proprio da John Cooper, che costruiva piccole ma agili macchine per le formule minori dotate di un motore alle spalle del pilota. Jack ci sa fare, si fa notare, e Cooper decide di farlo debuttare addirittura in F1, a Monaco nel ’57: il futuro sta iniziando, anche se nessuno se ne accorge. Brabham è a lungo terzo, prima di un guasto che lo costringe e retrocedere: un debutto da applausi. Ma per il 1958 Cooper lo fa correre fruttuosamente in F2, dove Jack è ormai lanciato ed è pronto per competere con tutti, compreso Stirling Moss, il re senza corona di quegli anni.

L’anno successivo, in F1, Brabham si impone a Monaco e in Inghilterra, comanda quasi sempre la classifica del Mondiale ’59, e all’ultimo GP con un sofferto quarto posto batte Brooks e lo stesso Moss diventando campione del mondo. Un titolo che però non convince tutti, men che meno gli inglesi che speravano finalmente in una vittoria di Moss, che non arriverà mai. Black Jack (così soprannominato non solo per i capelli corvini, ma anche per il suo carattere non proprio ‘latino’) non fa una piega: va a riposarsi nella sua Australia, e aspetta il 1960, che si conclude senza discussioni. Cinque vittorie consecutive e secondo titolo di fila per l’accoppiata formata dal taciturno australiano e dal “garagista” inglese che aveva “rovesciato” la F1.

Nel ’61 cambiano i regolamenti, ora i motori sono ridotti a 1500 cc, il tandem non funziona più come prima. Jack Brabham così si decide al grande passo: diventare Costruttore. E’ favorito dal credito che ora circonda il suo nome, dalla sua indubbia abilità tecnica (sin da ragazzo la meccanica lo aveva affascinato) ma anche dal momento di espansione dell’automobilismo inglese con il grande sviluppo dell’accessoristica da competizione. Con l’amico e progettista Ron Tauranac (anch’egli australiano), e con l’appoggio della Coventry-Climax, fornitrice di motori con cui aveva vinto i due titoli mondiali, Jack fonda la “Brabham Motor Racing Development”, una factory che nelle formule minori diventerà una realtà affermata. Ma in F1 la strada è in salita: qualche affermazione in gare fuori campionato, finché nel ’64 il compagno di Jack, l’americano Dan Gurney, centra le prime due vittorie del team nel Mondiale.

Brabham, dal canto suo, è ormai diviso tra le due anime di costruttore e pilota, ma ormai nessuno è più disposto a puntare sul Brabham-pilota: nonostante alcune sonanti vittorie in F2 e tante affermazioni in GP extra-campionato (ben 15, dietro ai soli Clark e Moss), Jack viene considerato solo una vecchia gloria, una gloria che poggia sui due titoli, vinti – si dice – solo grazie alla superiorità delle Cooper. Brabham, come suo solito, tace e pazienta ancora: come fece nel ’58, prima di convincere tutti di essere un vincente. In fondo, è nel suo destino lottare con il pronostico. E di rovesciarlo. Il suo pilota Frank Gardner disse: “Jack era il pilota più dotato della sua epoca. Ma quando arrivava in pista, su di lui pesava il lavoro di una settimana passata in officina o ad occuparsi dei suoi affari. Se si fosse dedicato solo alla guida, avrebbe dominato la scena alla maniera di un Fangio”.

Dopo un deludente ’65, Brabham realizza la BT19 (la sigla celava i suoi creatori: Brabham-Tauranac), su cui viene montato un motore apparentemente misero: si è rivolto alla Repco, azienda australiana leader nel settore dei ricambi automobilistici. Due ingegneri, Hallam e Irving, partendo da un normale monoblocco Oldsmobile di serie, hanno ottenuto un motore tremila, secondo i dettami della nuova Formula: sembra un grossolano errore, la potenza è scarsa (fatica a raggiungere i 300 cv, mentre Ferrari e Maserati ne sbandierano una sessantina in più), ma il motore è leggero, garbato nell’erogazione e soprattutto è semplice e affidabile: in un anno dove i più quotati motoristi puntano sulla potenza e sulla complessità (Ferrari, Honda e Maserati hanno dei 12 cilindri, la BRM si barcamena tra i vecchi 1500 maggiorati a 2000 e addirittura col mostruoso 16 cilindri ad H) la scelta di Brabham, derisa da tutti all’inizio, si rivelerà decisiva.

La stagione 1966 era già al terzo appuntamento, e sul piccolo Circo dei Gran Premi si era abbattuto un vortice di denaro: la MGM stava girando “Grand Prix”, un film sulla F1 che poi diventerà l’istantanea di un’epoca, realistico testimone di un periodo-chiave dell’automobilismo. Anche Black Jack fa parte del cast, comparendo in numerose scene. Telecamere, comparse, riprese: a Monaco e Spa, primi due appuntamenti iridati della stagione, i puristi delle corse erano rimasti infastiditi dall’invasione hollywoodiana.

Ma quel giorno di inizio luglio a Reims, dove si correva il GP di Francia e d’Europa, la troupe del film non c’era. Niente finzione, questa è una corsa vera. Due settimane dopo il trionfo a Spa, John Surtees lasciava improvvisamente la Ferrari e si presentava nella terra dello Champagne su una Cooper, il vecchio team di Brabham, lasciando Bandini caposquadra a Maranello. Lorenzo non delude: è in testa al campionato dopo le prime due corse e fa la pole position a Reims, dove il 12 cilindri Ferrari trova una delle ultime “locations” adatte alla declinante filosofia del Drake: stra-potenza sui lunghi rettilinei per staccare gli avversari, e arrangiarsi nelle (poche) curve per tenerli dietro.

Brabham è quarto in prova, tempo ottenuto anche con la furbata di un finto “lungo” in una curva stretta, dove passare nella via di fuga faceva guadagnare attimi preziosi. Quarantotto i giri in programma tra le messi di grano sul triangolo di Reims. Bandini su Ferrari fa valere la legge del 12 cilindri, comandando con sicurezza la gara. Jack Brabham è via via staccato, ma è sempre in agguato, in seconda posizione. Al 32° giro, il cavo dell’acceleratore di Lorenzo cede, tranciando di netto le ambizioni (anche iridate) dell’italiano.

E’ il momento tanto atteso. Sei anni di digiuno e nessuna vittoria in gare iridate, lo scetticismo verso i suoi quarant’anni (dirà poi Jack: “Sui giornali leggevo cose spaventose del tipo: ‘Incredibile, Brabham all’età di 40 anni continua a correre’. Ma io non mi sentivo vecchio: avevo l’età di Fangio quando vinse il suo primo titolo”), l’ironia verso la sua creatura e quel motore “povero”: tutto spazzato via. Dopo un’ora e quarantotto minuti di gara, Jack Brabham taglia da vincitore il traguardo: “Brabham su Brabham”, titoleranno i giornali di tutto il mondo. Per la prima volta, un pilota vince su un’auto che porta il suo nome. Quel pomeriggio trionfale sarà il primo di un poker di successi consecutivi che lo renderanno imprendibile nel Mondiale: Francia, Gran Bretagna, Olanda (dove si presenta scherzosamente in pista con una lunga barba e appoggiandosi a un bastone atteggiandosi a “vecchio”, come lo chiamavano i giornali) e Germania. E a Monza, nonostante il ritiro, è già campione del mondo: un’estate, una stagione dipinta coi colori dell’iride e impreziosita dal dolce sapore della rivincita, gustata e centellinata gara dopo gara, vittoria dopo vittoria, mentre le altre squadre annegano nei più disparati guai dei loro potenti ma fragili motori plurifrazionati.

A fine anno, “Black Jack” diventa “Sir Jack”: la regina Elisabetta lo premia con le insegne dell’Ordine dell’Impero Britannico, ma al momento di uscire da Buckingham Palace, la sua macchina non si avvia. Nessun problema: sotto lo sguardo stupefatto delle guardie del palazzo, Jack si sfila la giacca e infila le mani nel cofano. Tre titoli di campione del mondo non avevano cancellato lo spirito originario del ragazzo che aveva lasciato la scuola senza troppi rimpianti per fare il meccanico.

Nel ’67, nonostante la prepotente crescita delle Lotus di Clark e Hill dotate del nuovo V8 Cosworth che cambierà il volto della F1, le Brabham sono ancora competitive e Jack può fare poker di titoli, ma lascia che sia la pista a decidere tra lui e il suo compagno-dipendente, il neozelandese Denny Hulme, da due anni in forza al team, e sarà proprio quest’ultimo a beffare il titolato caposquadra all’ultima gara stagionale. Jack appenderà il casco al chiodo nel 1970, ancora competitivo e vincente all’età di 44 anni: trionfa nel primo GP stagionale in Sudafrica, poi a Monaco commette uno dei suoi rarissimi errori pasticciando con la frenata in un doppiaggio all’ultimissima curva venendo così beffato da Rindt (che due anni prima aveva gareggiato proprio in Brabham a fianco di Jack), situazione che si ripete a Brands Hatch, quando Jack Brabham finisce la benzina negli ultimi metri regalando nuovamente la vittoria a Jochen.

A fine stagione, l’addio in Messico. Dirà Cevert, che in gara lo segue per diversi giri: “Il vecchio guidava come un pilota di F3, con staccate in acrobazia e impostazione da kamikaze”, per dire che era tutt’altro che al tramonto. Jack saluta il mondo della F1 e vende all’amico-socio-progettista Ron Tauranac l’intera proprietà del team Brabham, che resterà vittoriosamente in F1 sino alla fine degli anni ’80, mentre i suoi tre figli saranno protagonisti in diverse categorie dell’automobilismo agonistico: il nome “Brabham” è già da tempo consegnato alla leggenda dello sport.

Well done, Sir Jack.

Francesco Ferrandino

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2 Commenti su “Goodbye, ‘Black Jack’”
Dariok dice:
Lui98 dice:

Gran bell’ articolo Sundance !!

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